Riprendiamo qui, per dovere di completezza, l’argomento degli additivi, già trattato nel precedente articolo dal titolo Additivi alimentari: gioie e dolori.
L’elenco completo dei quali sarebbe lunghissimo e pedantemente specialistico: sono davvero molto numerose le sostanze usate dall’industria alimentare nel confezionare i propri prodotti. Tutte rispondono ai severi protocolli di sicurezza e garanzia che ne dettano i modi e i limiti di impiego (direttiva del Parlamento e del Consiglio Europeo n.1333 del 2008).
I timori di una loro nocività derivano peraltro dai possibili effetti sui soggetti “deboli”, o variamente sensibili ad alcuni dei componenti, e anche dall’eccessiva quantità assunta. Per questo gli additivi alimentari rappresentano argomento di particolare interesse e dibattito.
Gli ingredienti, quali e quanti
Il consumatore avveduto e responsabile, attento alla salute, sa che al momento dell’acquisto di un nuovo prodotto deve sobbarcarsi fino all’ultima riga la lettura degli ingredienti (elencati ordinatamente in base alla quantità): lo deve fare perché una sfilza troppo lunga legittima il sospetto per un eccessivo numero di “correttivi” d’ogni specie, i quali appunto compaiono in fondo: sono gli additivi, impiegati in larga misura nei cibi con l’intento di protrarne la conservazione, o accentuarne la colorazione o aggiungervi dolcezza.
Le sigle da decifrare
Nell’articolo citato, cui volentieri si rimanda, sono descritti i principali, divisi per categoria e per sigla alfa-numerica che li identifica, citando anche quelli raggruppati in modo più anonimo sotto la voce aromi.
Essi servono a far percepire ai nostri organi di senso, primo fra tutti l’occhio e poi le papille gustative, alcuni pregi di un alimento, gradevolezza alla vista o appetibilità, che non corrispondono alle sue qualità “naturali”, che non sono di immediato impatto e decisivo effetto. Occorre addizionarvi qualcosa che le esalti.
Gli esaltatori di sapidità
Ai cibi e alle preparazioni meno naturalmente ricchi di gusto, che come si suol dire “sanno di poco”, hanno sapore più vago e dunque non inducono all’acquisto immediato, si aggiungono gli esaltatori di sapidità. Essi non sono affatto necessari né utili per la nostra alimentazione, né particolare fonte di salute e benessere. Sono sostanze controllate e permesse, ma tendono soprattutto a confermare nel cliente la fiducia che quel sapore denoti senza dubbio genuinità, freschezza e sano nutrimento.
I glutammati
Il glutammato di sodio (detto anche glutammato monosodico) è classificato con la sigla E620 o E621. Ha l’aspetto di una polvere bianca di consistenza cristallina, che è solubile in acqua. È il sale di sodio dell’acido glutammico, il quale appartiene alla categoria degli amminoacidi, le 23 molecole organiche fondamentali che, diversamente combinate, costituiscono la struttura bio-chimica della sterminata classe delle proteine, a loro volta essenziali nel garantire e governare i processi metabolici di ogni vivente.
In quanto amminoacido, e quindi naturalmente presente nelle proteine alimentari, l’acido glutammico è fra i più diffusi in natura: lo si trova in percentuali rilevanti nel glutine e nella caseina del latte animale, e poi nel pollame, nel pesce, nei granchi, nei funghi, in alcune alghe usate nella cucina giapponese, nei legumi e in alcuni ortaggi (soprattutto il pomodoro). È il parmigiano a contenerne la maggior quota: 1,2 grammi ogni cento.
Il glutammato è ottenibile anche a livello industriale, a partire dalla melassa. Compare nei dadi e nei granulati per il brodo con la specifica sigla E621. Accentua il sapore dei cibi senza dare gusto di salato. Ma è anche in grado, purtroppo, di rendere appetibili ingredienti scadenti e sgradevoli.
Sapori vivaci, ma…
Il glutammato può indurre cefalee ascrivibili all’ipersensibilità, e causare la trattenuta di liquidi ancora più del sale, con conseguenti ipertensione e rigonfiamenti dei tessuti. I critici più severi sostengono sia cancerogeno, e consigliano di evitarlo insieme ad altri due esaltatori di sapidità: il guanilato disodico (sigla E627) e l’inosilato disodico (E631).
Al cinese
Da alcuni decenni è diffusa e resiste la “leggenda popolare”, o diceria che dir si voglia, sui particolari e gravi effetti che produrrebbe il glutammato profuso a piene mani nei piatti della cucina cinese. È stata chiamata addirittura sindrome del ristorante cinese, responsabile di sintomi quali eruzioni cutanee, mal di testa, ansia, dolori al petto, sensazione diffusa di bruciore alla pelle, nausea, sudori, talvolta orticaria e accentuata difficoltà respiratoria nei soggetti asmatici. A verificare una possibile correlazione fra tali manifestazioni sintomatologiche e il glutammato si sono impegnati vari studi scientifici, i quali concordemente l’hanno smentita.
A titolo di pura curiosità, di tutt’altro e contrario tenore è la convinzione, anch’essa nulla più che un luogo comune, che sia proprio il consumo continuo di glutammato a contribuire a quell’aplomb, quella impassibilità, quei sorrisi ingessati che noi occidentali attribuiamo alla “strana” sensibilità dell’animo cinese.
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