La coltivazione della vite in Sicilia è antica di quattromila anni: dapprima autoctona e dunque priva di apporti innovativi estranei alla propria tradizione, ha poi beneficiato in tempi meno mitici dell’avvento di popoli di grande cultura alla ricerca di terre propizie a svilupparla, come i Fenici fra i secoli VIII e VII a.C. e successivamente i Greci, che hanno introdotto in quelle terre baciate dal sole e dunque di un clima davvero favorevole dei vitigni nuovi e un corredo di più avanzate tecniche di viticoltura.
La crisi e la rinascita
Poco o nulla muta per secoli, sino al periodo più tardo dell’Impero romano quando l’irruzione spesso violenta e distruttiva delle popolazioni barbariche mette in seria crisi la produzione e la ormai riconosciuta, in tutto il mondo antico e classico, qualità. È un intero sistema che vacilla e sopravvive appena al netto declino.
Delle viti torneranno ad aver cura altri cosiddetti invasori di ben più elevata e solida cultura, anche materiale, gli Arabi: può sembrare paradossale che se ne occupi proprio un popolo cui il consumo di vino è proibito per motivi religiosi, ma in realtà ciò che viene rimesso in piedi, rilanciato e potenziato durante la dominazione musulmana dell’isola è una viticoltura in gran parte dedita a produrre uva passa.
Il Marsala si impone
Ma è in tempi assai più vicini a noi che i vini siciliani acquistano fama oltre i confini d’Italia, una nomea destinata a non affievolirsi più. A far conoscere il loro grado alcolico, la loro corposità e i sentori fruttati fornirà un aiuto decisivo, casuale anche se interessato, un mercante vinicolo inglese, tale John Woodhouse, che nel 1773 nell’importare in patria a Liverpool il Marsala ha la pensata di addizionarvi quel percento di alcol che lo trasformerà in vino liquoroso. Con travolgente e tuttora intatto successo (vedi anche I vini liquorosi, robusti e carezzevoli).
Grande produzione
Il grande slancio alla produzione è provocato, circa un secolo dopo, dalla drammatica crisi dei vigneti francesi, sterminati dall’implacabile nemica, la fillossera: il crollo della produzione d’Oltralpe fa salire a picco d’improvviso la richiesta di vini siciliani, che spopolano ovunque. È tale la domanda che in breve la superficie dei terreni coltivati a vite si triplica. È la cinica legge del “mors tua, vita mea”: che però pochi anni dopo avrà il suo contrappasso quando il parassita colpirà duramente anche l’isola.
L’affermazione definitiva
Infine, una cinquantina d’anni fa, si assiste a una netta conversione enologica, un vero e proprio mutamento di rotta nell’indirizzo produttivo: accanto all’élite dei nomi di maggior impegno e tradizionale prestigio, protagonisti di feste, celebrazioni o da meditazione, si affacciano nuovi vini più freschi e leggeri, destinati alla tavola quotidiana, più abbordabili nel prezzo senza per questo perdere qualità, eleganza e profumo.
I vitigni
Gli inconfondibili sentori dei vini di Sicilia, che suggeriscono immagini di sole e di luce calda, di natura sfolgorante, la dolcezza della frutta e la sua fragranza, sono opera dei vitigni autoctoni che tuttora costituiscono, da soli o in sapiente associazione con altri non nativi di vicina o remota provenienza, la base della produzione enologica dell’isola.
Fra i più importanti a bacca rossa:
– d’obbligo la prima citazione è per il Nero d’Avola, o Calabrese, il più noto e diffuso (12 mila ettari di superficie), originario della parte Sud-Est dell’isola, Avola è appunto località del Siracusano;
– da zone prossime, quella di Ragusa e Vittoria, viene il Frappato, (cioè “fruttato”), che dà vini freschi e morbidi, come il Cerasuolo di Vittoria; se ne ha notizia documentata già nel primo Seicento;
– più a nord, nella regione dell’Etna oggi assai rivalutata dal punto di vista enologico, si trovano il Nocera, il Nerello Cappuccio e soprattutto il Nerello Mascalese (prende il nome da Mascali, cittadina prossima a Catania), secondo per estensione di territorio coltivato, che arriva sino ai mille metri di altitudine sulle pendici del vulcano; la media acidità e la freschezza aromatica derivano da quei suoli ricchi di minerali e lava stratificata; i suoi pregi organolettici lo fanno degno di grandi vitigni e vini come il Nebbiolo e il Pinot nero di Borgogna;
– il Corinto Nero alligna a Lipari, il suo nome evoca chiaramente la provenienza greca; sfuggì alla fillossera solo perché coltivato in un cratere di cenere e sabbia che lo difese dal parassita; i suoi acini in passato diventavano uva sultanina;
– il Perricone, introdotto anch’esso dai Greci, è presente nella Sicilia occidentale fra Palermo, Trapani e Agrigento; molto vulnerabile ai parassiti, ha rischiato anch’esso di scomparire durante l’epidemia di fillossera, salvato però per la sua importanza nella produzione del Marsala;
Fra i vitigni a bacca bianca
– primeggia il Catarratto, il più diffuso in Sicilia (essenzialmente nella provincia di Trapani, dove è presente in tre varietà) e tra i più diffusi in Italia; molto resistente ai parassiti; forse progenitore della “garganega” diffusa in Veneto, dà un vino dal sentore di fiori;
– altra citazione d’obbligo per lo Zibibbo (o Moscato d’Alessandria), frutto leggendario della colonizzazione dei Fenici, più probabilmente importato dagli Arabi (il nome significa “uva passita”) attraverso l’Egitto; usato per produrre il celeberrimo Passito di Pantelleria;
– il Grillo, nato dall’incrocio tra Zibibbo e Catarratto, ha alto grado zuccherino; si ritiene il più indicato per la produzione del Marsala, nella cui zona è maggiormente diffuso;
– il Carricante, alla base dei vini dell’Etna; dà un vino dagli spiccati sentori di frutta e di macchia; coltivato da millenni, giunse forse nel territorio di Catania intorno all’800 a.C., al tempo cioè dei primi coloni greci;
– l’Inzolia, presente nel Marsala mescolato al Grillo e al Catarratto; diffuso nella parte occidentale dell’isola (province di Agrigento, Trapani, Palermo), viene coltivato anche in Toscana, dove prende il nome di Ansonica; anche questo vitigno compare durante l’espansione e la colonizzazione greca;
– il Malvasia, fondamentale per la vinificazione dei vini dolci, come la Malvasia delle Lipari, la cui lontana origine è suggerita dall’analogia con il nome del villaggio greco di Monemvasìa;
– il Moscato di Noto, uno dei vini Moscato prodotto in Italia, altro vitigno specializzato in vini dolci e nei passiti della zona sud-ovest, coltivato nei comprensori vitivinicoli di Rosolini, Pachino, Avola e appunto Noto.
Di quanti pregevoli esiti nel panorama di vini siciliani d’eccellenza abbia prodotto nel tempo l’associazione di più vitigni, fra rispettosa tradizione e nuove proposte da offrire a consumatori affezionati o curiosi o stanchi della solita beva, converrà ritornare a parlare.
I vitigni siciliani
Bacca rossa
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Bacca bianca
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